Santo Tomás Chichicastenango

L’indio mi precedeva trotterellando disinvolto tra la folla del mercato.
Non conoscevo il suo nome, sapevo solo che proveniva dal pueblo quichè, popolo Maya nativo di uno dei tanti altopiani del Guatemala. Un paese fortemente caratterizzato dai suoi vulcani, quasi quaranta, spesso attivi e disastrosi come insegna la storia più o meno recente. Il territorio del Guatemala è montuoso, tranne la zona costiera meridionale e l’area settentrionale del dipartimento di Petén che è una vasta zona pianeggiante ricca di foreste tropicali al confine con le piane dello Yucatan, in Messico. I massicci montuosi che attraversano il paese sono due, la Sierra Madre e la catena di Cuchumatanes. Tra le sue vette spicca il vulcano Tajumulco, che con i suoi 4.220 metri di altitudine è il monte più alto dell’America Centrale. Il clima è gradevole e piacevole per tutto l’arco dell’anno, specie dal punto di vista termico, per questo è infatti considerato il Paese dell’eterna primavera. Due giorni prima avevo preso un alloggio alla Posada Casa del Rey, un edificio di adobe a due piani sulla 3a Avenida. Protetto dall’ombra della Cappella del Calvario, l’Hotel, modesto ma pulito, gettava lo sguardo verso est, sulle montagne del Xeabaj che si confondevano nella foschia del mattino. A 2.200 metri di altitudine Santo Tomás Chichicastenango, o semplicemente Chichicastenango, è un comune situato nel dipartimento di Quichè abitato da circa 75.000 anime. Non era la prima volta che visitavo questa bellissima cittadina, in passato vi ero stato altre due volte. A poche ore di autobus, verso sud, sulle sponde del Lago de Atitlàn, viveva una coppia di amici italiani. Possedevano da qualche anno un piccolo ma fiorente Resort, vista la grande affluenza di turisti che l’incantevole lago richiamava tutto l’anno. Quando ero di passaggio, diretto ad Antigua, la vecchia capitale del Guatemala, dove gestivo una pizzeria con un socio del posto, sovente facevo tappa nel loro albergo. Con la corriera giornaliera che partiva dal Mercado Municipal Frutas y Verduras di Panajachel, nel dipartimento di Sololà, ritornavo a Chichicastenango per la terza volta. La principale attrattiva del luogo è costituita dal mercato che ha luogo tutti i giovedì e le domeniche in cui si affollano in un vociare allegro i vari dialetti degli indios, che si rifiutano fieramente di parlare la lingua degli invasori. Tra mille colori vengono esposti prodotti di artigianato come vasellame, ceramiche, manufatti in vimini, tessuti, maschere rituali, sculture in legno, fiori, piante medicinali,  animali domestici e selvatici. Le donne, dallo sguardo dignitoso e mite, rappresentano il nucleo delle attività che si svolge nella piazza. Considerando che in Guatemala sopravvivono attualmente 21 gruppi etnolinguistici, circa il 70% della popolazione, l’abbigliamento, abbinato ai colori e ai disegni, elementi importanti della cosmovisione Maya, indica la loro tribù di appartenenza. La veste femminile, ancora indossata dalla grande maggioranza delle donne, è composta dal huipil, una blusa di cotone con al centro un’apertura rotonda o quadrata, spesso guarnita da ricchi ricami, che consente il passaggio della testa; il  soprehuipil, huipil da cerimonia; la corte, una gonna costituita da un pezzo di tessuto cucito alle estremità, così da formare una specie di tubo che si modella intorno alla vita impiegata anche da coperta notturna; faja, la cintura tessuta a telaio che serve per reggere la gonna; tzute, la stoffa quadrata o rettangolare che serve come copricapo o per trasportare oggetti;  e infine la cinta, il nastro che serve ad ornare i capelli e che indica il rango di  donna sposata. L’abbigliamento è simile per le bambine di tutte le età. Giunti alla scala esterna della chiesa, salimmo i gradini verso l’entrata principale. Mi rendevo conto di essere un privilegiato, i turisti avevano accesso solo dalle porte laterali e solo il venerdì in orari definiti. Dal portone socchiuso mi investì un odore intenso, un miscuglio di aromi tra i quali sovrastava l’incenso e la resina di pino. Un uomo, vestito nel tipico costume di Chajul con sombrero a tesa larga, pantalone di cotone bianco a tre quarti e l’immancabile borsa a tracolla in tessuto huipil, che esibiva alla cintola un lungo pugnale cerimoniale, ci lasciò entrare senza degnarmi di un’occhiata. L’interno dell’edificio era illuminato da centinaia di ceri e candele, il pavimento di pietra levigata, ricoperto di paglia, fiori e mais, che rimandava bagliori soffusi. Uomini e donne, inginocchiati, pregavano in lingue sconosciute sulle pietre tombali, formando gruppi di tre o quattro, come isolotti di un arcipelago dimenticato. Il ragazzo mi fece cenno di avanzare. Lo seguii lungo la navata laterale verso il fondo, dove c’era l’altare. Sulla parete, nella penombra delle nicchie, statue di santi annerite dal fumo secolare mi scrutavano severamente. La mia guida si fermò alle spalle di una colonna sbrecciata, umida al tatto, quasi oleosa, e mi impose di restare lì in silenzio, rafforzando il concetto portandosi l’indice della mano sulle labbra e intensificando lo sguardo serio. La chiesa di San Tomás è di culto cattolico, ma vi si celebrano anche riti Maya che poco hanno in comune, è in questo modo che si realizza il sincretismo tra gli dei pagani e la religione cattolica. Fenomeno presente in tutti i paesi caraibici. Alzai lo sguardo e guardai verso la navata centrale. Sopra l’altare la statua di San Tommaso dominava l’intero scenario. Sul pavimento un uomo teneva per il collo un gallo e gli lisciava le penne con la mano, mentre un altro col volto trasfigurato, a occhi chiusi, si rivolgeva alla volta della cappella recitando formule magiche incomprensibili. Intorno ai due sciamani bottiglie di liquori, lattine di pepsi, ciotole, canapi intrecciati e carabattole di ogni tipo. A lato un fuoco di rovi sprigionava un intenso fumo rendendo la scena annebbiata, come se tra noi ci fosse un oblò offuscato dalla salsedine. Il tono delle preghiere crebbe di intensità, e l’uomo lentamente appoggiò la lama di  un coltello alla gola dell’animale. Il movimento del polso fu impercettibile, e la lama scivolò sotto il collo del pennuto che sembrava non accorgersi di nulla. Il sangue prese a colare e lo sciamano ne guidò il getto in una ciotola di legno ai piedi dell’altare. Poi, come se tra le mani avesse un turibolo per l’incensazione, compì diversi giri su se stesso scuotendo il gallo e facendo gocciolare il sangue tutto intorno. Quando il povero animale venne prosciugato della sua linfa vitale, l’uomo lo avvolse in un telo e, con riguardo, lo depose nelle mani del sodale che lo portò via. A quel punto il silenzio si fece assoluto, e il negromante fece un cenno con la mano verso un gruppo di persone che sostavano poco distante. Una giovane donna che reggeva in braccio un bambino si alzò dal pavimento, e cautamente si avvicinò allo stregone che la fece sedere su uno scranno, vicino al fuoco. Il bambino, di circa tre anni, era immobile, con gli occhi chiusi. Probabilmente era affetto da qualche infermità o sortilegio. Lo sciamano si inginocchiò davanti alla donna, prese le mani del bimbo e le posizionò con i palmi verso l’alto. Intinse le dita nella ciotola con il sangue e, usandole come un pennello, cominciò a tracciare segni e simboli sui polsi e le braccia del piccino. Con il capo chino mormorò, con voce appena udibile, una litania melanconica e incomprensibile. Un canto antico, una nenia tramandata da generazioni che si perdeva nella notte del tempo. Concluso il rituale la donna si alzò in piedi. Il suo viso non lasciava trasparire nessuna emozione, non scorgevo soddisfazione né delusione, ma neanche indifferenza. Con lo sguardo basso si diresse col bambino stretto al petto verso la navata laterale, mescolandosi tra la gente in attesa. Lo sciamano agitò ancora la mano e una coppia di anziani si avvicinò all’altare. Avevo visto abbastanza, diedi un colpo sulla spalla dell’indio e ci avviammo all’uscita. Una volta fuori, l’aria tersa e pungente dell’altopiano mi rinvigorì i polmoni e mi schiarì la vista. Ammaliato dal cerimoniale, non mi ero reso conto di quanto fosse viziata e pesante l’atmosfera che si respirava nella chiesa. Presi una manciata di quetzal, la moneta locale che prende il nome dall’uccello dalla lunghissima coda simbolo del paese, e li diedi alla guida in attesa che girò i tacchi e sparì nella calca del mercato. Mi scrollai di dosso gli ultimi residui di torpore e mi guardai intorno. Una moltitudine variopinta di persone sciamava nella piazza. I colori accesi dei vestiti, i profumi voluttuosi del cibo, il vociare armonioso e cadenzato dell’idioma quichè e la gaiezza dei bambini che si rincorrevano a perdifiato, mi riportarono nella realtà. Discesi le scale del sagrato e imboccai l’Avenida Central. Ero diretto al quartiere Nojbal poco distante, al Restaurante tipico di Doña Maria che vantava un’ottima vista sulla valle del Maschito. Lo stomaco brontolava dalla fame ma si sarebbe appagato di lì a poco con una deliziosa sopa de pollo, specialità della casa. Sorridendo sperai che non si trattasse di quello della cerimonia, e pensai che tuttavia una lattina di cervesa frìas Gallo de Barril sarebbe stata la bevanda giusta, visto come era cominciata la giornata. 

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Message in a Bottle

Dobbiamo impegnarci a fondo, senza riserve. Superare i limiti delle nostre virtù e scoprire nuovi orizzonti di bellezza. Contaminiamo l’ambiente che ci circonda con rinnovata energia, senza chiedere nulla in cambio. Forse la mia visione coincide con la vostra. Se questo è vero immaginiamoci insieme. Per crescere ancora. Fino alla fine.

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Ananas & Manioca, again

Navigavo da quattro giorni su un barcone fatiscente diretto a Manaus, capitale e  cuore pulsante dell’Amazzonia. Circa ogni ora facevamo una sosta forzata. Persone e mercanzie transitavano a ritmo serrato su una lunga e sbilenca passerella che il capitano, un uomo dalla barba incolta e con il viso perennemente accigliato, dal bordo dell’imbarcazione aveva poggiato direttamente sulla riva fangosa del fiume. Non erano pause piacevoli. Nugoli d’insetti famelici, di ogni dimensione e natura, ci circondavano non appena il motore veniva spento. Di contro, però, avevo la possibilità di calare una lenza nell’acqua placida e brulicante di vita a ridosso delle mangrovie, che costituivano un muro compatto e a tratti impenetrabile lungo tutto il campo visivo. Sebbene l’amo fosse grezzo e contorto, bastava innescarlo con un qualsiasi pezzetto di cibo, e non appena  immerso, era aggredito e conteso tra vortici e sbuffi d’acqua. I pesci che catturavo erano di una bruttezza indescrivibile ma teneri e gustosi una volta cucinati. Il rude comandante del battello, con il quale avevo stretto una sorta di amicizia, anche per le sigarette che mi scroccava senza ritegno, mi dava il permesso di usare l’unico fuoco della piccola e disordinata cambusa, nella stiva di poppa. Di notte mi accomodavo sul ponte di prua. Il mantello nero-verde d’alpaca mi proteggeva dall’umido che la nebbia leggera posava ovunque. Nel silenzio vigile della selva, l’acqua del fiume lambiva i fianchi del battello procurando piccoli movimenti di beccheggio. Il cielo di antracite fitto di  perle mi faceva compagnia. Avevo iniziato il viaggio nel porto fluviale di Iquitos, una città del Perù nord-orientale. Capoluogo della regione di Loreto, Iquitos è il maggior centro dell’Amazzonia peruviana, fondata nel 1864 sul Rio delle Amazzoni, 125 km a valle della confluenza dei fiumi Ucayali e Marañón. Dopo circa 250 km di navigazione, assecondando la corrente del fiume, raggiunsi il centro di un’area denominata Tres Fronteras, dal momento che vi si incontrano i confini di tre Paesi: Brasile, Perù e Colombia. Espletate le formalità alla dogana di Benjamin Constant, entrai in territorio brasiliano. Vivevo quel viaggio esattamente come quelli che lo avevano preceduto, senza una meta precisa. Assecondavo il mio istinto e mi affidavo al caso. Ogni giorno avrei potuto prendere una direzione piuttosto che un’altra, oppure lasciarmi andare e aspettare che gli eventi mi ispirassero ancora. Il mio bagaglio si limitava a pochi indumenti, non conteneva mappe o medicinali, libri o macchina fotografica. Viaggiavo leggero, spensierato, seguendo il flusso dei miei pensieri. Avevo deciso di raggiungere Manaus per una scelta casuale, nata in un bar di Trujillo, sulla costa nord del Perù. Un musicista cileno me ne aveva parlato in termini entusiastici, descrivendo la città brasiliana, situata sulla riva del Rio Negro, come un luogo fantastico, unico al mondo. In quei giorni, scivolando sulle acque del fiume, pensavo all’attore Klaus Kinski nella pellicola  Fitzcarraldo.  Nel film diretto da Werner Herzog il protagonista, Klaus appunto, ha un grande sogno: costruire un Teatro dell’Opera a Iquitos, piccolo villaggio amazzonico ove vive, per farvi esibire i più grandi nomi della lirica, uno su tutti il famoso cantante Enrico Caruso, che vede cantare nel teatro dell’opera di Manaus. Così, sulle tracce del mitico tenore e mio illustre compaesano, avevo comprato un passaggio aereo da Trujillo a  Iquitos e lì mi ero imbarcato. Le soste nei porti s’intensificarono ulteriormente. La tolda del barcone si era affollata di gente che trasportava di tutto, lo spazio era ridotto al minimo e le zanzare non mi davano tregua. Per questo salutai il rustico comandante e decisi di sbarcare prima, nel porto fluviale di Fonte Boa, un piccolo comune di circa 10.000 anime nello Stato di Sudoeste Amazonense della regione di Alto Solimões. Andavo in cerca di una locanda quando un giovane indios, seduto a gambe incrociate su una stuoia, sorridendo mi fece un cenno con la mano. Esponeva sul terreno battuto intagli in legno che figuravano alligatori, serpenti, scimmie e armadilli ornati da strisce colorate di morbido cuoio. Malgrado parlasse uno spagnolo stentato, mi coinvolse in una piacevole chiacchierata sugli oggetti che produceva e i legni che adoperava come teak, ebano, mogano e palissandro. Si chiamava Nivaklé. La simpatia che esprimeva e il suo sorriso mi spinsero a fargli un regalo che avrebbe potuto usare con le sue creazioni di legno: un pantalone di pelle blu che non mettevo da un pezzo. Accettò il dono con gli occhi sgranati dalla contentezza, e insistette affinchè ci incontrassimo il giorno dopo. Per ricambiare voleva portarmi da un parente che viveva nella selva, a suo dire sarebbe stata per me un’escursione affascinante e indimenticabile. Accettai di buon grado. All’appuntamento si presentò anche la moglie, una ragazza minuta in stato avanzato di gravidanza, con un bimbo addormentato nella fascia a tracolla che le cingeva il pancione. Montammo sul pianale di un pick up sgangherato, il servizio di taxi locale, e partimmo. Dopo alcuni chilometri il camioncino ci lasciò in un piazzale di terra rossa al limitare della foresta. Nivaklé fece strada e ci inoltrammo per un sentiero velato da arbusti di cecropia, piante urticanti il cui nome è un riferimento al leggendario Cecrope, primo re dell’antica Atene. In fila indiana nel ventre del bosco, all’ombra di alberi imponenti mentre gli uccelli facevano a gara con il loro ciangottio. Dopo alcune ore sbucammo in una radura. Vicino a un enorme pernambuco dalla chioma maestosa, c’era un ricovero dal tetto spiovente, e sulla veranda, un vecchio a torso nudo con una paglietta che gli ombreggiava il viso. L’anziano, palesemente contento, abbracciò il mio amico e la moglie poi ci condusse sul retro della capanna e lì ci sedemmo intorno a un focolare di pietra annerita dall’uso. Da una trave pendevano una pentola e qualche arnese da cucina. La struttura di legno priva di pareti consentiva allo sguardo di spaziare sulla foresta che, come un poderoso muro verde, si innalzava pochi metri più avanti. In quell’ambiente fumido e spartano percepivo sensazioni nuove, dal sapore primordiale. Ero affascinato nel vedere come vive l’uomo ancora agli albori della cosiddetta civiltà.  L’indio parlava un idioma che non avevo mai sentito, musicale e accattivante, e con l’aiuto di Nivaklé che traduceva le sue parole venni a sapere qualcosa della sua vita nella foresta. Il suo nome era Tarauacá, che in lingua Içana, quella della tribù da cui proveniva, significava “Tramonto dorato”. Mi piacque molto. Un concetto semplice, quotidiano, che evocava immagini di riflessione, mitezza e persino innocenza. Aveva più di 80 anni e viveva nella selva da sempre  coltivando ananas e manioca. Il suo sogno era  di poter comprare un asino, vista l’età avanzata sperava in un valido aiuto per gli ultimi anni della sua esistenza. In seguito mostrò con orgoglio la disposizione delle colture e mi indicò la fonte dell’acqua, poco distante dal suo terreno. Quella notte dopo una zuppa consumata intorno a un fuoco, non senza una certa apprensione, dormii sul tavolato del portico. La casetta del vecchio, infatti, era angusta e piena di materiali accatastati, inadatta a ospitarci tutti. Impiegai alcune ore per prendere sonno. Nell’oscurità circostante sentivo mille rumori, inoltre avevo il timore che qualche animale pericoloso mi potesse assalire durante il sonno. La stanchezza e l’emozione alla fine ebbero il sopravvento. Al mio risveglio trovai solo Tarauacá affaccendato nel campo, degli altri non c’era traccia. Chiesi spiegazioni utilizzando il linguaggio dei gesti: pareva che i familiari fossero dovuti ritornare al villaggio prima del previsto. M’inquietai. Un velo di paura  mi attraversò la mente come un lampo. Certamente non sarei stato capace di ritrovare il sentiero da solo, ma quando capii che qualcuno sarebbe venuto a ritirare il raccolto, tirai un sospiro di sollievo. Il lavoro non mancava. Presi a dissodare il terreno con una zappa dal filo lucente, e istruito dal vecchio indios, appresi come piantare i tuberi di manioca e interrare ciuffi di ananas. Occorreva trasportare l’acqua dalla fonte, annaffiare i solchi e le conche delle piante e, non meno importante, sradicare le tenaci piante nocive che aggredivano le coltivazioni da ogni lato. Durante il giorno mi portava con sé, nel folto della foresta. Seguiva sentieri che ai miei occhi si confondevano nella vegetazione rigogliosa, al pari del mio senso di orientamento che sfumava in quell’ambiente uniforme e apparentemente monocromatico. Mentre gli stavo dietro era solito indicare una pianta, una radice o una corteccia particolarmente interessante, a gesti cercava di farmi capire le qualità dei vegetali che raccoglieva e l’uso che ne avrebbe fatto. Nonostante appartenessimo a culture completamente diverse e così  distanti geograficamente, io e  Tarauacá facevamo rapidi progressi nel comunicare tra noi. Il linguaggio dei segni è universale, una lingua nella quale noi italiani siamo particolarmente dotati e che ci aiuta a valicare barriere apparentemente insormontabili. Tra le chiome degli alberi secolari, pappagalli, tucani, colibrì, scriccioli e pigliamosche, allarmati dalla nostra presenza, emettevano una cacofonia di suoni striduli e bellicosi. Al coro si univa spesso i farfugliare delle scimmie cappuccine, che si tenevano in disparte sui rami più alti. Nonostante l’età, Tarauacá esibiva un incedere agile e armonioso. Con gesti fulminei raccoglieva dal terreno salamandre, scarabei, minuscole rane e centopiedi dalle lunghe antenne rosse che mi mostrava nel palmo rugoso della mano. Sui fusti degli alberi fitte colonie di Paraponera clavata sciamavano in cerca di prede e nettare floreale. La Paraponera clavata è comunemente chiamata formica proiettile, perché si ritiene sia l’insetto con la puntura più dolorosa al mondo e, secondo le vittime di queste temibili formiche, il dolore atroce è paragonabile a quello di un proiettile. Al calar della sera, alla luce della fiamma, ascoltavo rapito i misteriosi racconti del vecchio mentre consumavamo la solita zuppa di ananas e manioca. Malgrado afferrassi poche parole, le sue narrazioni erano vivide e coinvolgenti, sottolineate da  una gestualità esuberante e da occhiate eloquenti. Tarauacá m’insegnò molte cose, su tutte il suo modo di relazionarsi con l’ambiente, un legame fatto di rispetto, amore e profonda passione. In assenza di testi scritti, mi stava trasmettendo oralmente usi e consuetudini di una cultura millenaria. Era una biblioteca parlante. Più passava il tempo, più mi sentivo parte della foresta. Percepivo una sensazione di protezione, di pace, come se fossi in un rifugio sicuro, senza pensieri. Mi stavo rigenerando mentre scoprivo e apprezzavo ritmi diversi stando in simbiosi con la natura. Dopo diversi giorni, di primo mattino, si presentò al campo un ragazzo in perizoma dai capelli corvini. Insieme, guidati dal vecchio indio, raccogliemmo gli ananas pronti per la raccolta. Una volta privati del ciuffo, impilammo la frutta in due capienti sacchi di juta. Calcolai che pesassero non meno di 60 chili l’uno, ma i due indios se li caricarono agevolmente sulle spalle e tutti e tre imboccammo il sentiero per il ritorno. Io chiudevo la fila, davanti a me Tarauacá, piegato in due per lo sforzo, procedeva con un’andatura flemmatica ma costante. Non riuscivo a spiegarmi dove trovasse le forze per trasportare un simile peso. Vederlo arrancare in quel modo mi suscitava un senso di compassione, di tenerezza, così, dopo molte insistenze, lo convinsi a cedermi il suo carico. Ero un omone grande e grosso, all’epoca avevo 32 anni ed ero nel pieno delle forze. Ma non appena mi caricai il sacco bitorzoluto sulle spalle capii che non sarebbe stato facile. Sentivo la pressione crescente degli ananas nella schiena come sassi appuntiti, quasi volessero scavarsi un passaggio per entrare all’interno. A denti stretti proseguii per alcune centinaia di metri, ma alla fine dovetti cedere. Imbarazzato guardai il coriaceo indio mentre si accollava nuovamente il pesante fardello e, senza cambiare espressione del viso, riprese il cammino precedendomi sul sentiero. Era circa mezzogiorno quando giungemmo  nel piazzale di terra rossa. Tarauacá mi fece capire che lui e il giovane aiutante avrebbero preso un’altra direzione, probabilmente verso il mercato per vendere la loro frutta. Tarauacá mi si parò davanti, guardandomi negli occhi mi afferrò le braccia e le scosse con dolcezza. Un saluto toccante. Feci altrettanto e, prima che andasse via, gli misi nella mano alcune banconote che accettò con il solito sorriso. Forse non sarebbero bastate per comprare un asino ma era il minimo che potessi fare, dopo la squisita ospitalità che mi aveva riservato nella sua casa. Dopo che mi aveva fatto conoscere un altro modo di vivere nella sua foresta.

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La Villa

Casamicciola Terme, 1970
Ci trasferimmo nell’isola alla fine di luglio. Mio padre trovò vantaggioso il fitto di una villa, e così pagò due anni anticipati. Posta sul versante est del Monte Tabor, vantava una splendida vista sul mare con l’isola di Procida a un tiro di schioppo. Il cancello in ferro battuto lasciava intravedere la doppia scala che portava all’ingresso, e nel mezzo un
arco di pietra delimitava l’accesso alla cantina col soffitto a volta.
In stile Barocco, l’edificio era composto da due piani con cinque stanze per livello, e con un ambiente cucina di recente costruzione. Sul retro, il giardino traboccava di alberi da frutta. Ero il maggiore di quattro figli, avevo quasi dodici anni e tutto mi sembrava meraviglioso, profumato. Poi venne l’autunno e con esso il tempo dei fantasmi. Era di lunedì, lo ricordo perchè era l’unico giorno in cui la RAI trasmetteva il film, e sedevo attento, davanti alla TV, con mia madre e i miei fratelli. Mia sorella, che aveva tre anni, scarabocchiava su una lavagnetta, mio padre, quella sera, era fuori per una cena di lavoro. Udimmo il rumore della serratura e il cigolio della porta di ingresso. Marinella esclamò di riflesso: “Mamma, mamma è arrivato babbo”. Passò un minuto e non accadde nulla. Mia madre, a voce alta, proruppe: “Pasquale, dai non fare così, i bambini si mettono paura, esci fuori e smettila con questo stupido scherzo”! Ancora silenzio. Mamma a quel punto spense il televisore e fece un altro appello che non sortì risposta. Poi, udimmo un calpestio di passi che proveniva dalla stanza accanto, seguito dallo stridio dei cardini prodotto dalle porte che si aprivano, e questi rumori sinistri ci fecero balzare tutti quanti in piedi. Il trambusto ci impaurì, ma il panico ci avvolse in un lampo quando i rumori si fecero più violenti e vicini. Impulsivamente presi un coltello dal cassettone, mentre mamma apriva la finestra. Eravamo al piano terra, e mentre i miei scavalcavano il davanzale, io aspettai che gli intrusi uscissero dal buio. Brandivo l’arma verso la porta del corridoio, tremante, col cuore in subbuglio, col tempo che non passava mai. Non appena ci riunimmo all’esterno urlammo tutti insieme in direzione dell’edificio di fronte, dove subito si affacciò una donna. Ci precipitammo fuori nella strada proprio mentre nostro padre era di ritorno. Alcuni vicini, che nel frattempo ci avevano raggiunti, decisero di entrare in casa con papà per un controllo, ma non trovarono nessuno e tutto sembrava in ordine. Il giorno dopo, un contadino ci disse che, allarmato dalle nostre grida, si era affacciato dalla finestra della sua camera da letto e aveva visto delle ombre correre tra gli alberi nel nostro giardino. Una fuga improbabile, visto che il terreno era completamente cinto da alte mura. Mio padre attribuì scarsa importanza alla vicenda, liquidò la storia come un eccesso di fantasia da parte nostra, una suggestione collettiva. Ma nei mesi seguenti accaddero altri inquietanti episodi. Un’anfora, sebbene sottoposta, cadde dal tetto e si frantumò davanti alla porta d’ingresso, Black, con il pelo ritto, abbaiò come un invasato tutta una notte fuori la stanza dove era stipato il vecchio mobilio della villa. A volte era angosciante entrare in cantina perché capitava che le luci si spegnessero di colpo, per riaccendersi appena uscivamo. Per non dire poi del fatto che spesso mi si rizzavano i capelli dietro la nuca come se qualcuno mi alitasse sul collo, un fenomeno improvviso, sgradevole, che sperimentavano anche i miei fratelli. Di notte si viveva un’atmosfera di attesa, di circospezione, in particolare quando non potevo fare a meno di andare in bagno. Percorrevo il ballatoio e le scale con la certezza che una forza maligna mi avrebbe artigliato da un momento all’altro. Mio padre seguitava ad essere tranquillo, o forse pensava al denaro dato in anticipo, ma in seguito, suo malgrado, cambiò atteggiamento. Erano le sei del mattino, e come di consuetudine prendeva il caffè in cucina quando, portando la tazza alle labbra, senti qualcuno che si
schiariva la gola dietro le sue spalle. Si voltò ma non vide nessuno. Era solo. Confuso prese di nuovo la tazza, mentre la portava alla bocca udì nuovamente un verso umano, più accentuato, quasi perentorio. Da quel giorno dormimmo tutti in una sola stanza, e dopo due mesi, con sollievo di tutti, cambiammo finalmente casa.

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Pietre e sassi

Siamo pietre e sassi
e non ci rendiamo conto.
Sabbia condensata
per lo spazio di una vita.
Quando il tempo finirà
si scioglierà il nodo che ci trattiene,
e tutto si disperderà.
Faremo ritorno alla Terra che ci aveva generato.
Prima di quel giorno
vale la pena riflettere un momento.
Porsi qualche domanda.
Chiudere gli occhi,
toccare la superficie ruvida di una pietra,
lasciarsi abbracciare dal vento e farsi portare via,
per un momento,
ovunque sia.

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Scacco Matto

Giamaica, gennaio 1983
A Londra comprai un biglietto della British Airways per Kingston, isola di Giamaica. Atterrammo per un cambio di rotta a Montego Bay. Era notte e con Lilian, una londinese conosciuta allo scalo di Miami, alloggiammo nei pressi dello stazionamento dei speedy bus. Di buon ora salii su una camionetta con servizio per Negril. Dopo quattro ore immerso in un “reggae” perforante trasmesso dalla portatile, scesi poco prima di giungere al centro. Una capanna stile palafitta mi accolse poco distante dal mare, un fitto palmeto oscurava quasi del tutto il cielo caraibico. Due settimane di sole, gamberi e frutti tropicali mi avevano ritemprato al punto giusto, così preparai lo zaino, volevo fare una capatina a Kingston, distante circa 230 km lungo la Brompton Road. Nella capitale noleggiai una moto di marca americana, una Buell Motorcycle Company, pagai due settimane anticipate, avevo intenzione di esplorare le Blue Mountains che sorgono ripide a Nord-Est e si innalzano sino alle cime verdi tagliate a coltello della grande cresta. Il Parco Nazionale, sulla costa a Nord Buff Bay, Port Antonio con la laguna dalle spiagge seducenti, fino all’estremo Est di Morant Point, Easington e Harbour View a ridosso della capitale, un mese dopo ero di ritorno. Mentre ero fermo a un semaforo, un’esplosione di scintille scaturì dalla testata del motore a pochi centimetri dal mio ginocchio. Dal marciapiede di fronte un Rasta dal ghigno feroce, nero come la pece, a gambe larghe impugnava una pistola e mi stava scaricando addosso un nugolo di proiettili. La mia reazione fu immediata, partii a tutto gas bruciando il semaforo e qualsiasi cosa avessi davanti, percorsi l’arteria principale della città in un lampo, fermando la mia corsa davanti al noleggio dove restituii la fedele “Buell” al suo proprietario. Lasciai la capitale quel giorno stesso. Puntai a Nord, sarei tornato a Montego Bay passando da Ocho Rios e Rio Bueno, di cui avevo sentito parlare un gran bene. Ritornato a Negril, cambiai zona e scelsi un bungalow dal tetto a cupola intrecciato con foglie di palma, più a Nord, nella Orange Bay. Di fronte a me avevo una spiaggia infinita e un canadese aveva fatto di me un discreto giocatore di rugby. Spesso giocavamo con un gruppo di statunitensi. Le serate erano piacevoli alla taverna di Rubby Joe. Era ormai una consuetudine la partita a scacchi con Bigger, un giamaicano enorme che avevo conosciuto al concerto dei Yellow Man a Kingston. Una sera al suo posto trovai un altro nero che mi aspettava al solito tavolo. Non aveva una faccia simpatica e voleva fare una partita. Dava l’impressione del mafioncello anche per i due che sostavano alle sue spalle con aria da duri. Accettai la sfida e cominciammo. Il mio antagonista non era uno sprovveduto, attaccava con logica e ben presto mi resi conto della sua astuzia quando, in una serie di rapidi scambi, mi mangiò la regina. Quello che mi scatenò una sorda rabbia non fu la perdita del pezzo importante, ma le sghignazzanti risate del tipaccio indirizzate alla mia imperizia di giocatore. Ero in svantaggio evidente e non so se per la mia concentrazione o per un approccio troppo sicuro del nero, alla fine ebbi la meglio, vincendo la partita. Il giamaicano impazzì dalla rabbia, buttò il tavolo per aria bestemmiando e minacciando con una foga spropositata per quello che era successo. Era solo una partita di scacchi ma pareva che per quel deficiente fosse una questione di importanza capitale. Tra minacce rivolte alla mia persona accompagnato dai suoi scagnozzi uscì rumorosamente dal locale nel silenzio generale. Probabilmente quello che mi accadde poi, fu la conseguenza di quella partita a scacchi che forse non avrei mai dovuto vincere. Passò qualche giorno, tornando a casa dopo l’allenamento di rugby, trovai l’uscio scardinato e all’interno tutto in disordine. Non impiegai molto a scoprire che avevano trovato la tracolla con i documenti e il contante nascosta nell’incavo del tetto. Ero stato beffato duramente. La situazione mi sembrò meno seria quando, verso sera, il mio amico canadese mi riportò il passaporto che aveva trovato sulla spiaggia. Con e senza aiuto passai tre settimane da barbone. A Montego Bay, alla British Airways fecero orecchie da mercante: chiedevo assistenza, mi avevano rubato il biglietto, lo attestava la denuncia della polizia, volevo tornare in Europa e non avevo più risorse per il mio sostentamento in Giamaica. Inoltre in città non esisteva il consolato italiano cui fare riferimento. Il fatto li lasciava indifferenti. Cominciavo ad essere nervoso, stanco e affamato. Un giorno al tavolo di una coppia di tedeschi, afferrai un pezzo di pollo dal piatto e in pochi secondi lo divorai sotto lo sguardo atterrito dei due malcapitati. Con i laceri vestiti che indossavo, una manica di camicia a mo’ di bandana corsara, mi presentai all’aeroporto di Montego Bay. Era giovedì e c’era il consueto volo per Londra ed io ero intenzionato a partire ad ogni costo. Un minuto prima della partenza una hostess mi diede il permesso di abbordare, si era liberato un posto in prima classe, tornavo a casa e lei mi sembrava un angelo.

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Nazca

Nazca, Dipartimento di Ica, Perù. 1987
Lo stridio dei freni mi annunciò che ero arrivato. L’autobus si era fermato nei pressi di una rotonda, al centro della quale campeggiava una statua equestre. Quasi sicuramente raffigurava Simón Bolívar, il rivoluzionario venezuelano detto il Libertador, il cui contributo fu determinante per l’indipendenza di Panama, Colombia, Ecuador, Bolivia e Perù. Scesi a terra e mi guardai intorno, non si vedeva anima viva, a parte un tacchino. Il volatile, dal piumaggio rado e incolore, emetteva striduli versi, forse un saluto al sole che stava sorgendo in quel momento. Presi la strada per il centro diretto alla Plaza de Armas, ogni città in Sudamerica ne ha una e Nazca non sarebbe stata da meno. Alle mie spalle sentii l’autobus che ripartiva, era diretto a Sud, a Puerto de Lomas, lungo la polverosa Carrettera Panamericana. Presi alloggio in un hotel a due piani di recente costruzione, non lontano dalla piazza. Intonacato di bianco con una serie di bandiere che penzolavano sull’ingresso, la posada contrastava con il resto del paese dove gli edifici si mostravano diroccati e fatiscenti. Prima di salire in camera, dove mi aspettavano una doccia e almeno sei ore di sonno, l’impiegato al banco mi fissò un appuntamento con un pilota di piper, poiché l’unico modo per vedere le strabilianti Linee di Nazca era quello di volarci sopra. Verso sera si presentò il pilota. In jeans, stivali e camicia a quadri, appariva gioviale, aveva un modo di fare franco e diretto e sotto i baffi spioventi esibiva un sorriso contagioso. Pattuimmo trenta dollari americani per il volo e decidemmo di incontrarci alle nove del mattino seguente, sulla pista di atterraggio a venti km in direzione Nord. Il paese di notte era ancora più tetro. Le poche luci giallognole rischiaravano a malapena le strade sterrate, quasi non si vedevano auto e i pochi passanti rasentavano i muri camminando in silenzio. Nei pressi del mercato finalmente un cambio di immagine. Da un enorme portone socchiuso usciva un bel fiotto di luce insieme ad una musica invitante. Senza indugio, oltrepassato un paio di muli legati alla staccionata, varcai la soglia. Il locale, sottoposto rispetto alla strada, era ampio e aveva un grande tavolo nel centro occupato da pochi avventori. Sul fondo tre musicisti con i poncho multicolori e il chullo, il tipico berretto del luogo, erano intenti a suonare la zampoña il charango e il bombo, riversando le note andine sotto le travi annerite del tetto. Avevo fame e mangiai quello che mi portarono al tavolo, Bofe e tamales, frattaglie di manzo e pasta di mais ripiena di formaggio e vegetali, da bere il Pisco, l’acquavite nazionale. Quando tornai all’hotel le strade mi apparvero più luminose ed allegre, sicuramente merito del Pisco di cui conoscevo le indiscusse qualità terapeutiche. Al mattino, ancora frastornato dalle libagioni della sera precedente, mi recai all’appuntamento con un taxi procurato dal solerte portiere. Il pilota mi aspettava impaziente al fianco del suo velivolo, un modello americano, sei posti con elica di legno che aveva visto tempi migliori. All’interno della carlinga c’erano altri due passeggeri, il pilota mi fece cenno di salire e mi propose di sedermi al suo fianco. Poi avviò il motore e partimmo. La pista era sterrata e piena di sassi, alcuni grandi come cocomeri, ma l’uomo al mio fianco non ci badava molto. L’aereo sobbalzava violentemente e alla fine, contro ogni previsione, prese velocità e alzò il muso verso il cielo. Il primo disegno che vidi fu il colibrì, sembrava un’incisione ad acquaforte, preciso, nitido e meravigliosamente misterioso. Il pilota a quel punto fece un virata repentina ed inaspettata che mi fece balzare il cuore in gola. Ridendo come un matto mi disse che in questo modo avrei visto meglio le linee, più da vicino e tutte intere. Mi girai verso gli altri passeggeri, quello al centro era impassibile e non mostrava paura, l’altro, seduto sul fondo, era aggrappato ai sedili con gli occhi fuori dalle orbite, in un lamento muto e solitario. Non saprei dire se il pilota fosse ubriaco o semplicemente folle, fatto sta che aveva ragione. Le sue manovre mi permettevano una visuale perfetta e ravvicinata. Poco a poco mi abituai a quelle montagne russe, anche perché potevo fare ben poco. Dopo il colibrì venne il turno del ragno, poi il serpente, la scimmia, la balena, la stella e la spirale e altri ancora. Intanto il malcapitato turista seduto in fondo stava vomitando anche l’anima, ma il prode aviere non ebbe pietà. Continuò il volo come se niente fosse, tra cabrate audaci e picchiate vertiginose, condite dalle sue sonore e sghignazzati risate. L’ultima linea che ebbi modo di vedere fu l’astronauta. Sul versante di una piccola collina, a margine del complesso archeologico, compariva una figura di un umanoide. Somigliava ad un personaggio spaziale della Walt Disney: circa trenta metri d’altezza, grande testa tonda, enormi occhi sferici e gambe e piedi ben evidenziati, come se fossero fasciati da una tuta imbottita. Inoltre presentava un braccio alzato e sembrava salutarmi in modo affettuoso.
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Machu Picchu

Cuzco, Perù, 1993
L’aeroporto Alejandro Velasco Astete di Cuzco è situato praticamente dentro la città. Uscito dal terminal presi un taxi e mi feci portare al Barrio de San Blas, il quartiere più antico e caratteristico, quattro isolati a Nord della Plaza de Armas. Avevo anticipato la partenza da Lima mio malgrado, il clima che si respirava nella capitale non era dei migliori. Due giorni prima, infatti, mentre facevo colazione in un ristorante di Miraflores, un forte boato aveva squassato l’aria mandando tutti nel panico. Come seppi in seguito, il movimento rivoluzionario di Sendero Luminoso aveva compiuto un attentato dinamitardo nel vicino quartiere di San Borja, causando il ferimento di alcune persone e la distruzione di una centrale elettrica. Così, pensai bene di cambiare aria e mettere una certa distanza tra me e la capitale. Ero stato a Cuzco sei anni prima, ma girando per la città poco o nulla era cambiato. Si respirava la stessa atmosfera di abbandono, di oblio. Mi sentivo non solo in un altro paese ma anche sospeso in un altro tempo, misterioso e affascinante. A San Blas presi una camera al Tambo Real, una vecchia posada in adobe con l’insegna a bandiera in ferro battuto e incisione su legno. Qualche giorno dopo, sotto i porticati del Museo de Arte, conobbi un ragazzo che vendeva poro poro e pushgay, frutta paragonabile all’arancia e ai mirtilli. Era un tipo sveglio e loquace. Parlando del più e del meno, seppi della comunità di artisti e artigiani che viveva nella parte alta della città, poco lontano dalla fortezza di Sacsayhuamán. Incuriosito mi decisi per una visita. Venni accolto con molta cortesia e trascorsi tutta la giornata con loro. In gran parte erano giovani che provenivano dalle vicine regioni, attratti dalla reputazione che vantavano gli storici laboratori di Cuzco. Per un modico contributo in denaro mi permisero di alloggiare con loro. Dal giaciglio che mi ero procurato, lungo un corridoio al primo piano, avevo un’ottima visuale. Mancava, di fatto, l’intera parete, per cui potevo spaziare con lo sguardo dal cortile fino alla sierra, che cinge la città. L’edificio, come molti altri, era stato semidistrutto nel terremoto del 1986, mai ristrutturato era diventato adesso la residenza di questi giovani che avevano dato vita a una comune. Nell’ampio cortile, simile ad una grande officina a cielo aperto, si svolgevano diverse attività: taglio e lavorazione della pietra, lavori di ebanisteria, conciatura di pelli e cuoio, tessitura della lana e confezione di monili in argento e rame. In un angolo, tra due enormi cumuli di pietre, una fucina era perennemente all’opera. Il fumo e le scintille conferivano al luogo un aspetto primordiale, arcaico. Dopo una settimana salutai la compagnia, sono sicuro di aver lasciato un buon ricordo di me, oltre a una ricetta passabile di pizza con queso y tomate. Il treno per Aguas Caliente partiva alle otto dalla Estación San Pedro, alle spalle del Mercado Central. Avevo tergiversato già troppo, non vedevo l’ora di ritornare nella valle dell’Urubamba, nel cuore della civiltà Inca, nella strabiliante, meravigliosa, ineguagliabile Machu Picchu. 130 Km verso Nord Ovest, seguendo da vicino il fiume Urubamba. Diverse ore di viaggio tra paesaggi mozzafiato, montagne che a tratti si potevano toccare con mano, e vallate che improvvisamente apparivano dopo un tunnel o una svolta repentina del treno. Arrivai a Aguas Caliente nel primo pomeriggio, alloggiai in un hotel provvisto di vasche di acqua termale, che era la caratteristica principale del luogo. Il mattino seguente, di buon ora, salii sulla prima navetta che poco dopo partì in direzione del sito archeologico; erano le sette e sarei stato tra i primi visitatori. Il capolinea è un grande piazzale a qualche centinaio di metri dalle rovine. A fianco del botteghino dove acquistare il ticket per l’entrata c’è l’unico punto di ristoro, che fornisce bevande, cibo e attrezzatura di base per scalatori. Pagai il biglietto e tirai dritto senza perdere tempo. L’area edificata di Machu Picchu è divisa nettamente in due grandi settori separati da un muro di pietra e un canale. Provenendo da Sud oltrepassai la prima zona, quella agricola, poi entrai nella zona urbana. Dopo la Puerta de la Ciutad a passo spedito passai davanti al Templo del Sol. Poi il Grupo del Còndor, la Residencia Real, la pietra Intihuatana, che è l’oggetto più studiato dagli archeologi di tutto il mondo per le sue funzioni astronomiche, di seguito la Plaza e infine la Roca Sagrada, dove mi fermai e alzai lo sguardo al cielo. Davanti si ergeva il monte Huayna Picchu, il mio vero obietivo. Oltrepassai la sottile cresta rocciosa che lo separa dalla piana del sito archeologico, e mi portai ai piedi del massiccio. Avevo già scalato il Huayna Picchu, richiamai alla mente la prima volta e attaccai subito il sentiero, con determinazione. Il percorso è verticale, impegnativo, ma non richiede particolari attrezzature, a parte buone scarpe e ginocchia robuste. Dopo circa 40 minuti di arrampicata guadagnai la vetta. Non c’era nessuno, ero solo come avevo sperato. Dalla sommità si sovrasta l’intero complesso di Machu Picchu, 300 metri più in basso. L’Urubamba, scuro e spumeggiante, serpeggiava a valle tra le pareti di roccia, il fragore delle acque mi giungeva amplificato, poderoso, in contrasto con la quiete che regnava in cima. Mi sedetti su un grande masso e mi guardai intorno. Ero circondato dalle vette della Cordigliera a perdita d’occhio. La distanza, la foschia e l’ora mattutina le dipingevano con colori di mille sfumature: blu, indaco, zaffiro, viola, ardesia, bronzo e ametista. Mi sdraiai sul masso e pensai alla mia fortuna. Ero esattamente dove volevo essere, sul magico vertice del Huayna Picchu.

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Uragano

Isla Mujeres, Mar Caribe, 14 Settembre 1988.
Bighellonando per le strade notai che tutti mettevano nastri di adesivo sui vetri delle  finestre, barricavano le porte con sacchi di sabbia come si fa in trincea. Era in arrivo un uragano. Aveva già devastato le isole di Cuba e Giamaica. Si era originato in Venezuela, e virando a est, si dirigeva sull’isola di Cozumel non lontana da noi. In poche ore si svuotarono i negozi, a stento riuscii a procurarmi qualche scatoletta di sardine e una bottiglia di aguardiente. C’era una certa apprensione che si intensificò quando arrivarono ulteriori informazioni via radio. Gilbert, questo il nome dell’’uragano, aveva una velocità di crociera superiore ai trecento chilometri orari, aveva raggiunto il livello di categoria 5, il massimo, ciò significava che sarebbero stati guai seri per tutti. Mi sentii scuotere con violenza, il sonno e l’alcol mi avevano anestetizzato il cervello. Era una ragazza con gli occhi stralunati, l’uragano impazzava sopra le nostre teste, e lei, terrorizzata, chiedeva di entrare nel mio letto. Per la verità cominciai a svegliarmi del tutto quando schiacciò il suo corpo contro il mio. Irretito cominciai a toccarla, ma la punta acuminata di un coltello mi punse il fianco, sotto il fegato. La fanciulla chiedeva solo assistenza platonica. Fragorosamente il muro di fianco crollò sotto il peso di una palma abbattuta, a meno di due metri dal mio giaciglio. All’esterno il fracasso dei boati era assordante, il vento pressava su ogni punto del corpo ed era impossibile stare in piedi. Ebbi la netta sensazione che tutto si fermasse, forse in quel momento stava passando l’occhio del ciclone, ne approfittai immediatamente e corsi sotto una palapa dove mi legai alla base di cemento. Per tutta la notte la musica non cambiò. Solo a giorno fatto azzardai qualche mossa, ma il vento era ancora fortissimo, incontenibile. Aspettai un altro giorno e, cautelandomi con pietre nello zaino a mò di zavorra, uscii per una ricognizione. A fatica arrivai sulla via principale, era completamente allagata da un metro d’acqua, le case e i negozi erano volati via, un numero imprecisato di dispersi, e tutta la vegetazione sradicata per sempre. Isla Mujeres, è una piccola isola situata a 13 km dalla costa della parte nord-orientale della penisola dello Yucatan nello Stato di Quintana Roo, si trova proprio di fronte a Cancùn. Prima dell’uragano era una delle mete rinomate per la bella spiaggia di Playa Norte, con sabbia bianchissima, il Parco Garrafón, paradiso per gli amanti dello snorkeling e del mare, la spiaggia delle Tartarughe. Mi guardavo intorno, non avevo più riferimenti, sembrava che stessi in una enorme discarica dove rifiuti di diversa natura fossero mescolati tra loro, a formare un gigantesco ammasso inestricabile. I superstiti, tuttavia, erano già al lavoro, come se non fosse successo nulla. Li ammirai, provai un sentimento di forte vicinanza. Dove trovavano la forza di ricominciare? Mi misi al loro fianco e feci quello che potevo. In quei giorni mi sostenni con qualche cocco che trovavo tra i rifiuti, poi, in seguito, quando il mare lo permise, un peschereccio cubano riuscì ad avvicinarsi quel tanto da permetterci di afferrare i pesci che i marinai lanciavano da poppa. Dopo una settimana fu possibile imbarcarsi per la terra ferma. Intanto la radio diceva che Gilbert era morto. Dopo lo Yucatàn, e fatta una puntatina nel Golfo del Messico, si era arenato privo di forze nel deserto del Texas. Aveva complessivamente percorso qualcosa come quindicimila chilometri, e lo stavano definendo l’uragano del secolo. Dovevo chiamare casa, con la mia famiglia mi ero sentito poco prima che si scatenasse l’inferno, ma la linea telefonica era interrotta. Soltanto mille chilometri dopo, nella città che gli Aztechi chiamavano Huaxyácac, nel distretto di Oaxaca, riuscii a mettermi in contatto con mia madre che tirò un sospiro di sollievo.

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Ciudad Perdida

Dipartimento di Magdalena, Colombia, 1993. Buritaca è tra i luoghi più incantevoli che ho visitato in Colombia, un piccolo villaggio di pescatori che sorge alla foce del fiume omonimo, sul Mar dei Caraibi. Me ne aveva parlato, tempo addietro, un simpatico olandese che avevo conosciuto all’hotel Miramar, in Santa Marta. A un tiro di schioppo da Maicao, sul confine venezuelano, Buritaca sembrava essere fuori del mondo. Senza luce elettrica, automobili, linea telefonica, negozi, pareva di mettere i piedi in un’altra epoca. Solo un piccolo chiosco, nel centro della piazza, forniva il minimo indispensabile come fiammiferi, candele, qualche bibita, cordame e accessori per la pesca. Trovai un alloggio sul lato orientale del fiume. Un bungalow con la base circolare in pietra e il tetto di palme intrecciate, all’interno di un boschetto di mayaca e platani, dove una incredibile varietà di orchidee faceva a gara per chi fosse la più bella. Dopo un mese conoscevo quasi tutti i membri del villaggio, in particolare legai amicizia con due fratelli, Wayùn e Dimay. Appartenevano alla tribù degli Arhuaco, originaria della Sierra Nevada, e si guadagnavano da vivere tessendo mochilas, le tipiche borse a tracolla. Wayùn mi spiegò che le loro mochilas erano diverse da quelle in commercio, le tessevano solo con fibre bianche ed erano utilizzate a scopo cerimoniale, destinate a uomini di conoscenza, capi tribù o sciamani. Un giorno, mentre a pranzo pasteggiavamo con tranci di squalo martello e acqua di cocco, venni a sapere per la prima volta della Ciudad Perdida. Un antico sito archeologico situato nel cuore della Sierra Nevada, che gli indigeni chiamano Teyuna. Vista la fiducia e il rispetto che nutrivamo reciprocamente, mi proposero una escursione; mi avrebbero condotto in quello che consideravano un luogo sacro. Dopo qualche giorno, a bordo di una lancia che un pescatore ci aveva prestato, risalimmo il fiume per una decina di miglia, fino ad un’ansa dove erano insediate alcune capanne. Portammo in secca l’imbarcazione e proseguimmo a piedi, lungo un sentiero che ben presto si fece faticoso e impervio. Verso sera arrivammo di fronte a una parete rocciosa, Wayùn mi fece cenno di fermarmi, poi, con occhi divertiti, mi cedette il passo. In una fenditura della roccia c’era un passaggio che non avevo notato, lo oltrepassai e mi trovai su un pavimento lastricato che si inoltrava nella foresta. Meravigliato e con un senso di reverenziale stupore seguii i due fratelli su per una scalinata di gradoni ricoperta da licheni e radici contorte. Sbucammo in una piazzola circolare delimitata da un basso muro di pietre, da lì salimmo un’altra scalinata e ci trovammo sull’ apice della costruzione. Un poggio di pietra fatto dall’uomo. Il pavimento presentava complicate trame geometriche, e lungo il margine piccoli tabernacoli come merli di una torretta medievale ne delimitavano il perimetro. Da quel punto si dominava il panorama. Montagne a perdita d’occhio ricoperte da una fitta vegetazione, e il silenzio interrotto solo dalle grida degli uccelli che si preparavano ad accogliere il crepuscolo incombente. Ci accampammo alla base del villaggio, di fianco a un lastrone di roccia rossa e levigata che sovrastava una pozza d’acqua trasparente. Dopo aver legato le nostre amache ai tronchi e acceso un fuoco, ci spogliammo e ci immergemmo nella vasca naturale. Ricordo che Wayùn e Dimay mi guardavano compiaciuti, i loro occhi tradivano la gioia di dividere con me quel momento. Eravamo nel luogo sacro dove avevano vissuto i loro antenati, la Città Perduta. Ma io mi sentivo tutt’altro che perso. Alzando lo sguardo al cielo, con gli ultimi sprazzi di luce che filtravano tra le foglie, chiusi gli occhi e mi lasciai abbracciare da quella natura incontaminata e materna, consentendo al grande mistero di quel luogo di penetrare in me e portarmi verso l’inizio dei tempi.

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